La confessione di Gaetano Maranzano e la società capovolta: l’osceno non va più nascosto
- Postato il 13 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Sarebbe rassicurante pensare che Gaetano Maranzano, reo confesso dell’assassinio di Paolo Taormina, sia un mostro, un matto da legare suggestionato da quel gran sobillatore di Saviano, ma temo che non sia così: delle “cinquanta sfumature” nere della violenza, Maranzano occupa certamente quella più scura, che però senza soluzione di continuità rimanda al paradigma dell’abuso di potere ed il “pesce puzza sempre dalla testa”.
Ho riguardato una decina di volte, incredulo ed allibito, il video che Maranzano ha fatto su TikTok, sapendo che presto sarebbe stato arrestato. Non ha pensato di scappare o di costituirsi, ha pensato ad esibirsi, grottesco emulo di Totò Riina, ma non di quello vero (le registrazioni indimenticabili non mancano), quello rifatto ad uso e consumo dei telespettatori, finendo per risultare un patetico sotto prodotto della narrazione mafiosa.
Altri più attrezzati di me potranno illuminare il circuito vizioso tra violenza agita e la sua rappresentazione social, tra estetica mafiosa e disperata ricerca di una identità alla quale aggrapparsi per difendersi dal nulla che gorgoglia nelle gole fino a soffocare. Io mi limito a riflettere sul capovolgimento dell’osceno: l’abuso violento non è più da nascondere, come avveniva nel teatro antico che consumava l’omicidio fuori-scena, è anzi da mostrare come cifra di una umanità che si pretende valente, ardita, capace di fare per davvero e non soltanto di chiacchierare inutilmente.
Ed ecco che il mafioso, uomo di pace, uomo d’onore, scannatore riluttante di cristiani, obbediente alla necessità di retribuire lo sgarro al solo scopo di mantenere l’ordine delle cose, prende la ribalda come maestro impareggiabile, che insegna alla vecchia maniera, senza lavagna interattiva, senza smart-phone.
Tornano alla mente le parole torte del figlio irredento di Totò Riina, che grazie ad una compiacenza radiofonica ha tentato di trasformare il padre stragista in un romantico ribelle, quasi novello Robin Hood. D’altra parte negli anni 40 e 50 del secolo scorso ci fu persino un filone cinematografico che si esercitò nel rappresentare i mafiosi come gagliardi nativi capaci di garantire la pace sociale meglio dello Stato romano e meglio della corrotta ed agonizzante aristocrazia locale: “In nome della legge”, 1949, di Pietro Germi andrebbe utilizzato nelle scuole di partito (se ci fossero!).
E’ probabile che una copia restaurata del film stia nella cineteca di Trump, che deve essersi esercitato a lungo guardandosi allo specchio nelle pose di massaro Turi Passalacqua, campione di panza e di presenza. Tanto che forse più del Nobel per la Pace a Trump bisognerebbe dare l’Oscar come migliore attore protagonista.
Sull’asfalto però restano per davvero una enormità di vittime innocenti che difficilmente avranno giustizia. Resta il grido della madre di Paolo Taormina: “Ora come farò a vivere?”. Che è il grido di ogni madre, di ogni padre costretto a sopravvivere all’insopportabile: seppellire un figlio, una figlia. Chi consolerà questo dolore? Come?
Dopo la Seconda guerra mondiale, dopo l’olocausto, dopo le bombe atomiche, l’umanità sopravvissuta provò a rispondere promettendo solennemente: MAI PIU! Una promessa fatta ai morti, una promessa fatta ai padri ed alle madri sgomenti, una promessa fatta ai figli ed alle figlie che sarebbero venuti dopo l’orrore. Quella promessa solenne fondò il diritto internazionale umanitario, come strumento di una gestione non violenta dei conflitti, ispirò l’art. 11 della nostra Costituzione, generò l’Onu e successivamente il Tribunale Penale Internazionale. Quella promessa trovò finalmente la strada per germogliare anche in Italia nella tardiva, riottosa, rottura della relazione mefitica tra Stato e mafie, conducendo all’inserimento del 416 bis nel cp e successivamente alla istituzione della DIA e della DNA: per fare giustizia basta la legge.
Chi oggi avrà l’autorevolezza morale per riscattare i frutti di quella promessa solenne dal sequestro operato a reti unificate dai nuovi signori della guerra?
Dubito che possa averla questa destra di “eredi al quadrato” (del Duce e di Berlusconi), una classe dirigente che per lo più affonda le proprie radici ideologiche nel nazi-collaborazionismo di Salò. Perché, alla fiaccolata per stringersi attorno alla famiglia di Paolo Taormina, non c’era la presidente dell’antimafia on. Colosimo? Che trova il tempo per portare corone di fiori persino alle automobili crivellate dai colpi mafiosi sparati contro la “speranza dei siciliani onesti”, ma non trova parole per condannare gli abusi del presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, il “fratello” Gaetano Galvagno.
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