La Juventus alle spalle di Trump ha un aspetto svilente anche per il calcio femminile
- Postato il 20 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Rita Ricchiuti – L Football
È così che dicono, no? Quando si protesta contro un genocidio, quando si scende in campo con una fascia arcobaleno, quando si domanda la parità di genere o ci si inginocchia in protesta contro il quotidiano razzismo, la frase di rito è sempre “il calcio non deve essere politico!”. Un concetto di per sé già abbondantemente anacronistico, perché nel momento in cui un’intera nazione trae profitto dal calcio o dallo sport in generale, questo è già diventato parte integrante della sua politica come della sua cultura e della sua società.
Si cade poi nell’accecante ipocrisia se una squadra si erge alle spalle di un capo di Stato estero che in quel momento interroga i giocatori sulla guerra e soprattutto sul ruolo della donna nel calcio, nella speranza forse di ottenere una risposta che si allinei ai suoi ideali, che lo diverta, magari.
Quindi ci troviamo di fronte a un evento in cui non soltanto il calcio è diventato strumento (o servo) di una propaganda politica ma sono riusciti anche a sfociare nei confini dei diritti umani. O della sua decenza di base. Perché che si trattasse di un’occorrenza inevitabile, di un invito irrifiutabile o di una visita di circostanza, la presenza della Juventus alle spalle di Donald Trump ha un aspetto svilente, imbarazzante e fuori luogo. Per i suoi giocatori stessi, che non volevano essere lì (come confermato da Tim Weah), che apparivano insolitamente a disagio, che sono stati pedine di un gioco più grande e più oscuro di quello del calcio.
E per il calcio femminile italiano, per la stessa Juventus Women Campione d’Italia, per la presenza delle donne nel calcio che il Presidente degli Stati Uniti ha provato a usare come imbeccata per una battuta nel migliore dei casi e come ennesima presa di posizione che a conti fatti si colora di misoginia e omofobia nel peggiore. Perché in fondo l’ideologia di Trump è nota a tutti ormai, non ne ha mai fatto mistero.
A partire dal 2019, quando diede inizio a un’autentica crociata social, perseguita poi anche dalla sua famiglia per anni, contro Megan Rapinoe, volto e simbolo della Nazionale statunitense femminile, ma di quell’America che in fondo Trump non rappresenta. La stessa Rapinoe e la stessa Uswnt che fin dall’inizio dei Mondiali riaffermarono la loro posizione e l’intenzione di non presenziare alla Casa Bianca in caso di vittoria. Perché forse a volte rifiutare è possibile, se si accettano tutti i rischi che inevitabilmente ne conseguono.
Dunque in definitiva la lezione che sembra dispiegarsi oggi è che il calcio non deve essere politico, ma solo se tende dalla parte di una politica scomoda che non prevede vantaggi personali e benefici economici. E se allo stesso tempo però non si può mostrare la bandiera di un Paese senza subire ripercussioni, se non si può indossare una fascia arcobaleno, se non si può neanche ammettere apertamente la propria identità, allora forse non bisogna ridefinire il proprio concetto di politica ma di democrazia.
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