L’Antropocene è in crisi. Una conversazione tra Carla Subrizi e il filosofo Felice Cimatti
- Postato il 23 luglio 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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Correva l’anno 2016 e, nel corso di una conversazione con la giornalista radiofonica Monica D’Onofrio, nell’ambito di un progetto di Gianfranco Baruchello, nasceva l’idea di realizzare una mostra con gli Studi, gli oggetti ibridi (cose trovate o costruite, di gomma o plastica, intersecati con disegni, carte geografiche, scatole, etc..) che Felice Cimatti, filosofo e docente all’Università della Calabria, conduttore radiofonico, realizza nelle sue riflessioni sulla filosofia dell’animalità.
Chi è Felice Cimatti
“Figlio di una pittrice e di un poeta”, come ama definirsi nella propria biografia, Cimatti lavora da sempre sulla trasversalità dei linguaggi, passando dalla biopolitica alla relazione tra filosofia e psicoanalisi lacaniana. Il soggetto animale ha occupato gli ultimi anni delle sue ricerche, e la mostra alla Fondazione Baruchello, in corso fino al 1° agosto e a cura di Carla Subrizi, lo testimonia, in quella che oggi si definisce la crisi dell’Antropocene. Se ne parla più approfonditamente in questa conversazione tra Subrizi e Cimatti, che spiegano meglio il progetto.

La conversazione tra Subrizi e Cimatti
Ricordi la prima volta che hai messo degli animaletti di plastica su delle superfici o dentro le scatole? Com’è cominciata questa passione?
Credo che l’idea mi sia venuta una quindicina di anni fa, in un periodo in cui avevo ricominciato a lavorare sulla questione dell’animalità, cambiando però radicalmente prospettiva: ora mi interessava l’enigma animale, non la sua somiglianza con noialtri umani. Il mistero animale. Sono un assiduo frequentatore di mercatini di oggetti usati, e in particolare di Porta Portese, il grande mercato domenicale romano di oggetti usati. Al tempo cercavo fotografie con soggetti animali, poi ho cominciato a prendere animaletti di plastica, soprattutto quelli fatti male (non quelli da collezionismo, per intenderci), con colori improbabili, mal incollati.
Che è successo poi?
Un po’ per gioco li ho accostati a delle immagini di filosofi (la filosofia è nata, in un certo senso, per rispondere allo scandalo dell’animalità, cioè di forme di vita del tutto aliene, felicemente aliene), ricordo ad esempio un piccolo ritratto di Cartesio – quello del cogito ergo sum riservato solo agli umani – osservato da una mucca. È cominciata così, per gioco. Poi una volta ho trovato in un mercatino una mappa tridimensionale dell’Italia, ho subito pensato di popolarla di animaletti. Prima li ho semplicemente incollati, poi – un paio di anni dopo – ho coperto tutto con più mani di smalto bianco, perché l’effetto complessivo era decisamente migliore. È cominciata così.
La mostra alla Fondazione raccoglie molti lavori di questi ultimi anni, in particolare mappe e scatole. Ti chiedo, a questo proposito, se è cambiato qualcosa in queste due pratiche? E ancora, hai idee nuove da sviluppare, perché pensi che questo lavoro si sia in qualche modo esaurito, o si sta sviluppando in altre direzioni?
Credo che sia cambiata, e mi sembra in meglio, la capacità di pensare questi ‘assembramenti’ in modo pittorico (penso per masse colorate, ora), e tridimensionale, pensa alle mappe, appunto. Preparo le superfici con vari materiali (segatura, gesso, cemento, ossido di ferro) perché acquistino spessore, perché l’insieme esca fuori, proprio come fanno gli animali, che non stanno mai dove vorremmo che stessero, scappano sempre. Venendo alla seconda parte di questa domanda, premesso che le idee mi vengono andando in giro, come nel caso della latta arrugginita che ho trovato incastrata sugli scogli sul lungomare di Paola, vorrei provare a lavorare su superfici più grandi, da un lato, mentre per le scatole luminose vorrei costruire strutture più equilibrate. Quindi un lavoro incrementale, più che un cambio radicale verso nuove soluzioni, almeno per ora.
I disegni che abbiamo esposto sono sicuramente qualcosa di straordinario, non soltanto per la forma che prendono questi piccolissimi segni ripetitivi a formare degli stormi, come quelli che si vedono in autunno sul cielo di Roma. Che cos’è che ti colpisce di questo movimento, e soprattutto, come fai a fermare questo movimento in un disegno?
Gli storni in volo sono puro movimento, l’animalità al suo massimo grado, pura vita che si vive. È questo che mi ha sempre colpito di questi stormi, la meraviglia di queste forme che non fanno che diventare altre forme, una specie di musica spaziale. Mi chiedi come faccio a ‘fermare’ questo movimento, in realtà il mio sogno è riuscire a non fermarlo, vorrei che questi disegni dessero la sensazione del movimento anche se sono immobili. Penso che il nostro problema con l’animalità, e quindi con il mondo perché il mondo è un grande animale, sia proprio quello di provare sempre a fermarlo, a dargli un nome, a fissarlo in una fotografia. Mi aspetto sempre che questi storni volino via dal disegno.
Qual è il momento che scegli per dare forma a questa polverosa, friabile, costellazione di piccoli segni?
Vale anche qui quello che ti dicevo prima, non sono io che scelgo, c’è una forma che mi fissa, ti direi, come c’è un animaletto che mi aspetta su un banco a Porta Portese. Io non faccio che rispondere a questa occasione di forma.









Che cos’è cambiato per te, guardando tutti questi lavori raccolti alla Fondazione, dandogli un aspetto di precarietà, rendendo precario il modo in cui queste opere sono istallate, alcune a terra, altre appese, altre ancora poggiate, per dare l’idea che tutto potrebbe ancora mutare, proprio come quando si studia qualcosa.
Guarda, la prima cosa e fondamentale, per me, è stato accorgermi di quanto lavoro ci fosse stato. Sono anni che faccio disegni, costruisco scatole, mappe, arche (che mancano nella mostra, ma il tema dell’arca senza Noè, e quindi senza umani, è un tema su cui torno periodicamente), li faccio e li metto da qualche parte, me ne dimentico, ma l’oggetto rimane, e alla Fondazione li ho visti tutti insieme. Credo di avere capito questo, che questa passione per l’animalità non è (più) una ossessione privata, è uscita fuori, come un animale appunto. Ora se ne sta in giro, la lascio andare, era tempo che se ne andasse per il mondo.
Un’altra domanda riguarda il titolo di questa mostra, “Studi”, che è giocato sul doppio senso del tuo studio filosofico, dall’altra parte si tratta di uno studio manuale, che riguarda materiali, smalti, colle, chiodi e martelli, studi di spazi e composizioni. Ecco, in che modo credi che il pensiero possa aver aggiunto qualcosa a questo lavoro più pratico?
In realtà il lavoro intellettuale è molto più fisico di quanto si ritenga, perché si pensa, quando succede, scrivendo, e scrivere è una attività manuale e visiva, corporea, per non parlare della ricerca dei libri da consultare e citare, che nel disordine estremo del mio studio è sempre un’avventura fisica, prima ancora che intellettuale. Allo stesso tempo lavorare con la colla, ad esempio (non ho ancora trovato una colla abbastanza forte, a proposito), non richiede meno lavoro teorico, perché quando si tratta di incollare un animaletto di plastica su una mappa, faccio mille prove prima di scegliere il posto giusto. Come in un caso non c’è solo lavoro mentale, così in quest’altro non c’è solo lavoro manuale. In ogni caso si pensa sempre con le mani.
Che cosa vedi, dell’arte, che cosa ti interessa del mondo dell’arte, che rapporti hai, se li hai, con persone del mondo artistico? Oppure il tuo è un rapporto che nasce direttamente da te, dalle tue ricerche, dal tuo studio?
È difficile risponderti. In questi ultimi anni qualche artista l’ho conosciuto, ma sinceramente non sono loro che mi hanno spinto a questi lavori. C’entra forse il fatto che vado in macchina nell’università dove insegno, ad Arcavacata di Rende, in Calabria, e i lunghi viaggi in tutte le stagioni sulla A3, la strada più bella d’Italia, mi hanno offerto una occasione di pensiero e di sospensione che, ripensandoci, è stata forse la mia vera e fondamentale esperienza artistica. Poi posso dirti che per permettermi questa mostra ci ho messo tantissimo tempo. Sono una persona frettolosa, ma anche lentissima, sarà per questo che mi ha sempre appassionato la geologia.
Gli animaletti nelle scatole danno l’idea di una costrizione, ma anche di un’attesa, e ancora quella di un altro mondo. In che modo lavori sull’animalità in questi attraversamenti?
Hai usato la parola giusta, direi, per me si tratta proprio di attraversamenti, cioè di passaggi, linee di fuga, esattamente come nei disegni degli storni. Cerco il fuori.Carla Subrizi
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L’articolo "L’Antropocene è in crisi. Una conversazione tra Carla Subrizi e il filosofo Felice Cimatti" è apparso per la prima volta su Artribune®.