L’astensione al referendum è una resa: senza la voce dei lavoratori, nessuno parlerà per loro
- Postato il 9 giugno 2025
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di Paolo Gallo
Nel silenzio assordante delle urne vuote, si è consumata l’ennesima sconfitta di una classe lavoratrice che, per stanchezza, sfiducia o miopia, ha scelto l’astensione. Il referendum che avrebbe potuto segnare una svolta epocale per milioni di lavoratori – sia precari che stabili – è fallito per mancanza di quorum. Non è bastata la battaglia portata avanti da sindacati di base, associazioni civiche e lavoratori impegnati: la partecipazione è rimasta sotto la soglia critica, lasciando le richieste di maggiori tutele e sicurezza sul lavoro sospese in un limbo di indifferenza.
I quesiti erano semplici ma carichi di conseguenze: si chiedeva se i lavoratori volessero un rafforzamento delle garanzie sui contratti a termine, la possibilità di stabilizzazione dopo un certo periodo, e l’allargamento delle sanzioni contro chi viola le normative in materia di sicurezza sul lavoro. Una richiesta di dignità, in fondo. Eppure, nonostante l’urgenza delle tematiche, la risposta collettiva è stata un desolante “non pervenuto”.
Colpisce soprattutto l’inerzia di chi avrebbe dovuto sentire questa battaglia sulla propria pelle: operai, impiegati, tecnici, magazzinieri, rider, educatori, infermieri, giovani ricercatori. Alcuni precari da anni, altri “garantiti”, forse troppo convinti che i loro diritti siano ormai cristallizzati. Ma cosa significa oggi avere un “posto fisso”, se anche nelle professioni più strutturate il ricatto della produttività e del burnout è diventato prassi quotidiana?
Questa assenza non è solo una dimenticanza: è una resa. Un atto di rassegnazione mascherato da disillusione. È vero, negli ultimi anni il lavoratore italiano ha visto erodere lentamente ogni certezza, tra riforme del lavoro opache, promesse mancate e una politica sempre più distante dai bisogni reali. Ma voltare le spalle a un referendum che parlava proprio di più diritti significa abdicare al proprio ruolo attivo nella società. È come rifiutare un salvagente mentre si annaspa tra le onde, con la scusa che il mare è troppo vasto per essere salvati.
C’è poi una responsabilità culturale, che va condivisa. Il dibattito pubblico è stato tiepido, i grandi media distratti, e le forze politiche di destra che avrebbero dovuto andare oltre gli ideali di partito si sono defilate, timorose forse di spaccare il consenso. Ma questo non può giustificare l’apatia generale. Il voto è uno strumento, non una favola: non serve crederci, serve usarlo. E la democrazia partecipata richiede sforzo, non solo indignazione da social network.
Il risultato, oggi, è che si è persa una possibilità concreta di invertire una rotta che porta sempre più lavoratori verso la fragilità. Non ci sarà nessun cambiamento legislativo, nessun tavolo di confronto obbligato, nessuna riforma imposta dalla volontà popolare. Solo un grande, malinconico ritorno allo status quo.
La domanda che resta sospesa è amara: cosa serve ancora per far reagire il mondo del lavoro? Quante morti bianche, quanti rinnovi a termine, quante dimissioni volontarie causate da condizioni insostenibili? Forse, prima di chiedere più tutele, bisognerebbe riscoprire il senso stesso della parola “partecipazione”. Perché senza la voce dei lavoratori, nessuno parlerà per loro.
Il referendum non è stato solo un’occasione mancata: è stato uno specchio. E quello che riflette oggi è il volto sbiadito di una coscienza collettiva da ricostruire, prima che sia troppo tardi.
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