L’attentato a Ranucci è un campanello d’allarme: la stagione buia delle bombe non è finita

  • Postato il 17 ottobre 2025
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di Paolo Gallo

Questa notte l’Italia ha tremato di nuovo, non per un terremoto, non per un evento naturale: ha tremato perché è tornato il boato di una bomba, fatto che avremmo voluto confinare nei capitoli più oscuri della nostra memoria. Davanti alla casa di Sigfrido Ranucci, due esplosioni distruggono le auto di lui e della figlia. Per fortuna nessuno è rimasto ferito.

È un attacco fisico, un messaggio in metallo e fuoco, non spiegabile con il solo atto vandalico. E la sua gravità non sta solo nella devastazione delle automobili, ma nella violazione intima di un sentimento collettivo che credevamo quasi inattaccabile: la sicurezza della libertà di informazione, della libertà personale, della civiltà civile.

Sigfrido Ranucci che con Report cerca verità scomode su mafia, corruzione, conflitti ambientali, sulle pieghe oscure che intersecano potere ed interessi, ha già subito minacce, intimidazioni, attese angoscianti: vive, ormai, sotto tutela; la scorta non è una scenografia, ma un presidio di libertà affinché certe minacce non restino inascoltate.

Ci guardiamo indietro e vediamo un’Italia che credevamo chiusa nei libri di storia. Pensiamo agli anni di piombo: quando l’ideologia, la strategia della tensione, il terrorismo erano parte tragica della vita quotidiana. Pensiamo agli attentati di mafia: le bombe che ferivano non solo chi si chiamava Falcone o Borsellino, ma ferivano uno stato intero, indebolivano la fiducia, seminavano paura. Ogni attentato, ogni intimidazione che colpisce chi fa giornalismo è una ferita al tessuto democratico.

E allora questo fatto, le auto distrutte da un ordigno, è qualcosa che ci risveglia. Ci ricorda che la libertà di espressione, la dignità della critica, la possibilità di interrogare, denunciare, mettere sotto la lente le storture di chi detiene potere, non sono beni acquisiti per sempre: richiedono difesa attiva. Richiedono uno Stato (le istituzioni, la magistratura, le forze dell’ordine) pronto a reagire, pronto a proteggere. Ma anche una comunità civile che non si rassegna, che alza la voce, che non riduce la difesa della libertà a gesto retorico, ma la rende impegno concreto.

A Ranucci, alla sua famiglia, alla sua redazione, va tutta la solidarietà possibile. Va il plauso per il coraggio mostrato fin qui; va la richiesta che non sia lasciato solo. Ma va anche la domanda: che cosa abbiamo fatto negli ultimi anni per rendere l’Italia più resistente contro le minacce alla democrazia? Nel passato l’Italia ha pagato caro il prezzo della complicità silenziosa, dell’indifferenza, del lasciare che i confini della libertà si restringessero, poco a poco, per il timore o per il quieto vivere. Oggi non possiamo permetterci la stessa colpa: sarebbe consegnare le nostre istituzioni, il nostro futuro, alle ombre che pensavamo sopite.

Questo attentato è una ferita, ma anche un campanello d’allarme. Ci dice che la stagione buia non è soltanto memoria: è un possibile presente, se non restiamo vigili.

Che lo Stato risponda. Che la magistratura faccia piena luce. Che i responsabili, materiali e morali, siano individuati. Che la libertà di informazione, il dovere del giornalismo, il diritto di cittadinanza non diventino optional, non siano merce esposta alla intimidazione, ma pilastri non negoziabili.

E che noi, come società civile, non dimentichiamo. Perché ogni notte in cui una bomba esplode davanti a un’abitazione, non è soltanto un fatto contro un individuo: è un colpo allo spirito pubblico. E lo spirito pubblico, se si spezza, lascia dietro di sé vuoto e paura.

Insieme, possiamo dire: basta. Non è questa Italia che vogliamo. Non è il passato che vogliamo ereditare. Uniti nella vicinanza, nella parola, nel dissenso civile, restiamo vigili.

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