L’omicidio di Paolo Taormina non è una fatalità: è il risultato di un’equazione

  • Postato il 15 ottobre 2025
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L’omicidio di Paolo Taormina, ventun anni appena, non è un episodio di cronaca nera ma il punto di rottura di un sistema che ha smesso di prevenire. È l’esito prevedibile di una catena di omissioni, non l’effetto della fatalità. La notte tra piazza Spinuzza e il Teatro Massimo non è un luogo del caso, ma un laboratorio di rischio noto, dove la violenza segue un andamento regolare, quasi statistico. Quando la frequenza di un evento tende a stabilizzarsi, smette di essere casuale e diventa prevedibile. E ciò che è prevedibile, se ignorato, si trasforma in colpa collettiva.

Non si tratta di ridurre la sicurezza pubblica a un’equazione, ma di riconoscere che ogni città è un sistema complesso e misurabile. La probabilità non cancella l’imprevedibilità umana: la illumina. Serve a capire che il rischio non nasce dal caso ma dalla costanza.

Il Questore di Palermo ha mostrato efficienza investigativa: l’autore del delitto è stato fermato in poche ore. Ma questa non è la misura del successo, è la prova – a mio avviso – dell’assenza di prevenzione. La sicurezza non si valuta dalla velocità dell’arresto ma dalla capacità di evitare che il fatto accada. La logica operativa, purtroppo, resta quella reattiva: il lampeggiante che arriva dopo, la sirena che suona a tragedia compiuta. È un errore logico antico — post hoc ergo propter hoc: si scambia la reazione per controllo.

Eppure, la matematica del rischio è implacabile. Se in una rissa di dieci persone anche una sola su dieci è armata, la probabilità che almeno uno lo sia è del 65%. L’equazione descrive un dato elementare: il rischio cresce in modo esponenziale, non lineare. Non è un esercizio accademico il mio: è ciò che accade ogni weekend in una città dove i gruppi sono numerosi, le armi circolano e i presidi fissi mancano. Non è colpa degli agenti, si badi, ma del modello adottato che li costringe a reagire invece di prevenire. Il Questore, che ha la responsabilità operativa della sicurezza dei cittadini, ha sbagliato nel micro: non presidiare il momento giusto e il luogo giusto. Ma il Prefetto ha sbagliato nel macro: non costruire la rete di prevenzione sistemica che gli compete. Il Prefetto non dirige le pattuglie, governa la strategia.

Dopo mesi di episodi simili, avrebbe dovuto riconoscere che la violenza notturna non è un’anomalia ma un processo ad alta frequenza, e quindi prevedibile. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica non può essere un rito formale: deve essere un centro di decisione reale. Servivano presidi fissi, analisi predittive delle zone calde, accordi con i locali per steward civili, controllo degli accessi e delle vie di fuga e, soprattutto, un comando unico interforze capace di leggere i dati in tempo reale e ridurre il differenziale tra sicurezza percepita e rischio reale. Oggi quel differenziale è massimo: la popolazione vive la notte come territorio di nessuno, mentre le istituzioni misurano la sicurezza solo attraverso le statistiche delle denunce. È un errore culturale prima che tecnico.

Quando un giovane disarmato si sente in dovere di intervenire per fermare una rissa, significa che il patto di protezione tra Stato e cittadino si è infranto. Palermo non ha bisogno di più agenti, tantomeno dell’esercito, ma di un modello cognitivo diverso. La sicurezza del XXI secolo si fonda su dati, algoritmi predittivi e analisi dei flussi, non sull’improvvisazione. Non significa automatizzare la polizia, ma dotarla di strumenti cognitivi capaci di anticipare il rischio.

Le esperienze internazionali lo dimostrano: Londra, Barcellona, Lione hanno ridotto del 40% gli episodi violenti introducendo l’hotspot policing: presidi fissi e visibili nei punti critici, con controllo in tempo reale. Palermo resta invece ancorata alla casualità, e il rischio si normalizza. Il Questore conta gli arresti, il Prefetto i comunicati stampa. Ma nessuno misura la deterrenza effettiva. La sicurezza, invece, si può calcolare: P = 1 – (1 – q)n, dove E è l’esposizione, M la minaccia, V la vulnerabilità e I l’impatto. Palermo ha aumentato E (affollamento eccessivo), non ha ridotto M (presenza di soggetti armati), ha trascurato V (assenza di presidi fissi) e, di conseguenza, ha moltiplicato R. Ed è proprio così che esposizione, minaccia e vulnerabilità, se non governate, moltiplicano il rischio. L’omicidio del giovane Taormina è la risultante di quell’equazione, non la sua eccezione.

In altri Paesi un fatto simile porterebbe a una revisione del modello di sicurezza urbana. A Palermo si parla ancora di emergenza, ma l’emergenza è ormai la nuova normalità. Io credo che sia la conseguenza di due inerzie: quella del Questore, che agisce sempre dopo, e quella del Prefetto, che non agisce mai prima. Paolo Taormina è morto per difendere un principio che lo Stato doveva garantire: la protezione della vita. Ma l’intervento del singolo diventa supplenza, non coraggio. E la sua morte è la conseguenza diretta dell’assenza visibile delle istituzioni: quando lo Stato abdica alla prevenzione, la cittadinanza viene lasciata sola davanti alla violenza, e ogni gesto di civiltà diventa un atto di rischio.

La lezione che Palermo dovrebbe imparare è semplice e terribile: un evento ripetuto non è una fatalità, ma un difetto di governo. E finché le istituzioni non comprenderanno che la sicurezza è una questione di probabilità, non di fortuna, continueremo a contare i morti come se fossero eccezioni, mentre sono ormai, tragicamente, ineluttabilmente, esiti prevedibili.

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Il Fatto Quotidiano

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