‘Mio nonno era un terrorista’, Mosab Abu Toha scrive le sue poesie da Gaza per farsi sentire da noi
- Postato il 10 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“L’esercito israeliano ha ucciso 10 attivisti della Freedom Flottilla e ne ha feriti 56, calandosi a bordo della nave da un elicottero e sparando a distanza ravvicinata allo scopo di impedire la consegna di aiuti umanitari a Gaza”. Questa è una notizia vera: non un’ultima ora ma una notizia del 2010. Anche allora l’esercito impedì a una flotta di sette navi cariche di aiuti – con a bordo decine di parlamentari – di raggiungere Gaza.
La storia non comincia il 7 ottobre, quello è al massimo il momento in cui abbiamo cominciato a parlarne in tv. A parlarne immedesimandoci con le vittime civili dell’attacco terrorista di Hamas. E le centinaia di miglia di vittime civili palestinesi che le avevano precedute? Quale telegiornale si è preoccupato di farci immedesimare con loro? Con gli sfollati, i morti, i feriti, i rapiti quali tecnicamente sono le centinaia di palestinesi, anche bambini, da anni sequestrati dall’esercito israeliano e trattenuti per mesi e anni senza capo d’accusa, processo, diritto alla difesa in carceri dove si pratica sistematicamente la tortura, come documenta un’inchiesta israeliana ripresa dal Guardian?
Non meritano tutte le vittime la stessa compassione? A cosa serve non mostrare, non ricostruire, non raccontare decenni di abusi subiti in violazione del diritto internazionale dai palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, se non ad occultare e giustificare il colonialismo e la pulizia etnica praticata da Israele e così ben esplicitata negli intenti, nei discorsi, nei documenti ufficiali e nelle azioni conseguenti del governo israeliano e dei suoi ministri?
Per cominciare a recuperare decenni di mancata empatia, suggerisco a tutti noi questo esercizio. La lettura di una poesia.
“Se fossi nato nella giungla amazzonica, i miei scritti riguarderebbero alberi, passeri e lucertole”, scrive il poeta palestinese Mosab Abu Toha. Essendo invece nato a Gaza, “dove non ho scelto di nascere, perché anche io, proprio come voi, non ho potuto scegliere il posto in cui venire al mondo”, i sui scritti raccontano di case crollate e famiglie morte ammazzate e paura di andare in bagno perché la bomba potrebbe cadere in quel momento e tu moriresti nudo, e nessuno vuole morire ma men che mai vuole morire nudo.
Mosab parla così nel 2022, presentando il suo primo libro di poesie, “Cose che puoi trovare nascoste nel mio orecchio”, pubblicato dalla mitica City Lights di San Francisco, fondata nel 1953 da Lawrence Ferlinghetti per diffondere L’urlo della Beat Generation. Nel 2022: l’anno prima del 7 ottobre 2023, quando Gaza era già stata bombardata tante di quelle volte che i genitori usavano i bombardamenti per scandire il tempo: “Ad esempio, dalle nostri parti uno dice Mio figlio è nato durante la guerra, oppure mio figlio è nato 2 mesi dopo la guerra”.
Mosab ha cominciato a scrivere poesie nel 2014, dopo l’operazione militare israeliana che aveva raso al suolo interi isolati e prima dell’operazione militare israeliana che avrebbe raso al suolo altri isolati: “La maggior parte delle mie poesie parla dell’oscura realtà di Gaza. La gente qui pensa alla morte e alle guerre, non può pensare al domani o al futuro, perché temiamo sempre che la storia si ripeta”.




E ogni guerra – che poi non è una guerra, quando da una parte c’è l’aviazione e dall’altra i civili inermi – si porta via qualcosa, palazzi, famiglie, sogni: “Ecco perché cresciamo così in fretta. Avevo nove anni quando ho visto un elicottero sparare contro un edificio e farlo crollare”. Vivendo in queste condizioni, siamo costretti a lasciarci alle spalle la nostra infanzia. La guerra ci invecchia, aumentando la nostra sofferenza e il nostro dolore. Ora che sono padre, mi vedo attraverso gli occhi dei miei tre figli, che ora vivono in condizioni ancora peggiori di quando io ero bambino”.
Ha cominciato a scrivere poesie in inglese, Mosab, per farsi sentire da noi. Per denunciare al mondo quello che Israele, con la complicità dei governi occidentali stava facendo ai palestinesi: “Quando scrivo in inglese, penso a un ascoltatore occidentale come se stessi parlando direttamente con lui per dirgli cosa sta succedendo qui a Gaza”.
Scrive a noi perché vuole che noi ci immaginiamo al suo posto: “L’occupazione tenta di manipolare le azioni delle vittime – i palestinesi – e di trasformarli in terroristi. Se qualcuno odia qualcun altro, penserà che tutto ciò che fa è male, qualunque cosa faccia, anche la più innocente. I coloni, gli occupanti, hanno sempre paura di noi, qualunque cosa facciamo, perché sanno che questa non è la loro casa o la loro terra”. Scrive di suo nonno, profugo: “Per me, mio nonno rappresenta la Palestina. L’occupante pensa che mio nonno o qualsiasi palestinese sia un terrorista, ma io mostro chi erano veramente”.
Scrive nel 2014, Mosab, quando – documenta l’Onu – in meno di due mesi, oltre 12 mila appartamenti sono stati completamente distrutti dall’artiglieria israeliana e altri hanno subito troppi danni per continuare ad essere abitati. 2.251 palestinesi sono stati uccisi dalle bombe israeliane, in maggioranza civili. Tra questi 551 bambini e 299 donne. Sono morti, nello stesso periodo, anche 66 soldati israeliani e cinque civili, tra cui un bambino. Sono 11.231 i palestinesi rimasti feriti, tra cui 3.540 donne e 3.436 bambini, un terzo rimasti invalidi. Quasi 300mila i palestinesi gli sfollati.
“Ho raggiunto l’età di 27 anni e non ho lasciato lasciato Gaza nemmeno una volta: questa è una privazione. Non ho mai avuto la possibilità di avere una veduta aerea di Gaza o di casa mia, perché non c’è un aeroporto. Siamo assediati da tutte le parti. Alla fine ho capito che a Gaza ci è impedito persino di immaginare il mondo che ci circonda”.
Quella che segue è la poesia dedicata a suo nonno, costretto a vivere in una tenda dopo che la sua casa era stata presa occupata dai coloni. “Viviamo ancora in una tenda, nonno”, scrive Mosab nel 2024, prima di riuscire a lasciare Gaza con sua moglie e tre figli. Al valico di Rafah la polizia israeliana lo ha arrestato, trattenuto tre giorni, gli ha spaccato i denti, lo ha riempito i lividi, gli ha sequestrato tutti i bagagli con i vestiti per i bambini. Sua madre e la sua famiglia sono ancora intrappolati a Gaza.
Vi parlo di Mosab perché sono convinta che nella vita la cosa più importante di tutte sia mettersi nei panni degli altri. Potessi scegliere un superpotere, sarebbe questo. Lo dice un altro poeta palestinese morto in esilio, Mahmoud Darwish in una sua poesia: “Pensa agli altri”: “Mentre stai per tornare a casa, a casa tua, non dimenticare i popoli delle tende. Mentre dormi contando i pianeti pensa agli altri, quelli che non trovano un posto dove dormire”. Le poesie di Mosab Abu Toha ci aiutano a metterci nei suoi panni, in quelli di suo nonno, in quelli di tutte le vittime di decenni di occupazione e segregazione in violazione del diritto internazionale, della pulizia etnica della quale i nostri governi sono complici.
Pubblico questa sua poesia in inglese, la lingua nella quale l’ha scritta per noi, seguita dalla traduzione in italiano, accanto a una foto di Mosab, una di suo nonno, una di Gaza nel 2014, una della biblioteca pubblica Edward Said che Mosab, a 24, ha fondato a Gaza con i libri in inglese chiesti in dono a tutto il mondo. La biblioteca è stata rasa al suolo mesi fa dall’artiglieria israeliana.
***
My grandfather was a terrorist
My grandfather was a terrorist—
He tended to his field,
watered the roses in the courtyard,
smoked cigarettes with grandmother
on the yellow beach, lying there
like a prayer rug.
My grandfather was a terrorist—
He picked oranges and lemons,
went fishing with brothers until noon,
sang a comforting song en route
to the farrier’s with his piebald horse.
My grandfather was a terrorist—
He made a cup of tea with milk,
sat on his verdant land,
as soft as silk.
My grandfather was a terrorist—
He departed his house,
leaving it for the coming guests,
left some water on the table, his best,
lest the guests die of thirst after their conquest.
My grandfather was a terrorist—
He walked to the closest safe town,
empty as the sullen sky.
vacant as a deserted tent,
dark as a starless night.
My grandfather was a terrorist—
My grandfather was a man,
a breadwinner for ten,
whose luxury was to have a tent,
with a blue UN flag set on the rusting pole,
on the beach next to a cemetery.
***
Mio nonno era un terrorista
Mio nonno era un terrorista—
coltivò il suo pezzo di terra,
innaffiò le rose nel cortile,
fumò sigarette con la nonna
disteso sulla riva giallastra del mare
come un tappeto da preghiera.
Mio nonno era un terrorista—
raccolse arance e limoni,
pescò coi suoi fratelli fino a mezzogiorno,
portò a far ferrare il suo cavallo pezzato
cantando un motivo per calmarlo.
Mio nonno era un terrorista—
si faceva il tè con il latte,
sedeva sulla sua terra rigogliosa, soffice quanto la seta,
s’infuriava col sole se sbatteva le palpebre.
Mio nonno era un terrorista—
se ne andò da casa sua per lasciarla agli ospiti in arrivo,
lasciò dell’acqua sul tavolo, la migliore che aveva,
fosse mai la sete li prendesse una volta conclusa la conquista.
Mio nonno era un terrorista—
giunse a piedi al primo paese sicuro,
scuro come un cielo incupito,
disabitato come una tenda deserta,
rabbuiato come una notte senza stelle.
Mio nonno era un terrorista—
mio nonno era un uomo
che mantenne dieci persone,
che per lusso ebbe una tenda
con la bandiera celeste dell’ONU
issata s’un palo arrugginito
sulla spiaggia vicino a un cimitero.
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