Netanyahu riapre agli aiuti a Gaza, ma solo per accelerarne l’annessione: facciamo ancora più rumore!
- Postato il 19 maggio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Marco Grimaldi e Benedetta Scuderi
Per tutta la notte le bombe spostano l’aria come schiaffi del vento. Le sentivamo anche ieri, benché fossimo ancora distanti. E pensare che l’anno scorso, all’arrivo della missione italiana a Rafah, Israele aveva interrotto i bombardamenti per preservare un barlume di decoro. Ora è svanito anche quest’ultimo scrupolo, portato via dalla consapevolezza di una quasi assoluta impunità.
Arriviamo con la carovana per Gaza davanti alle porte dell’inferno. È tutto sigillato da chilometri di muri di cemento che si ergono nel deserto del Sinai. Una cicatrice che va contro ogni religione, Vecchio e Nuovo Testamento. Mentre i colpi di mortaio rendono difficili le nostre stesse parole, la conta di questi quattro giorni di bombardamenti porta le vittime innocenti a 300, 75 durante la notte che abbiamo trascorso ai confini di Rafah.
L’ospedale indonesiano di Beit Lahiya, sotto assedio da parte delle forze israeliane, ha dovuto procedere all’evacuazione dei pazienti in condizioni critiche, trasportandoli su barelle e sedie a rotelle. La struttura, un tempo punto di riferimento per cure mediche nella regione, si svuota mentre l’avanzata dell’Idf rende insostenibile la permanenza.
Le autorità israeliane non ci fanno entrare. Come noi, rimangono fuori cibo, acqua, medicinali, Ong, giornalisti, aiuti. Rimane fuori l’umanità. Gaza ha bisogno di noi. Siamo qui per dire che ci sentiamo responsabili ma non vogliamo essere complici dello sterminio del popolo palestinese. Vogliamo impedire che, dopo il genocidio, si compiano anche la pulizia etnica e l’annessione. Ci sediamo per terra e gridiamo tutta la nostra rabbia, che sappiamo essere di tanti e tante altre.
Intanto, la popolazione civile continua a fuggire dal nord della Striscia di Gaza, cercando rifugio nella zona di al-Muwasi, designata come “umanitaria”. Migliaia di persone si spostano in condizioni precarie, alla ricerca di sicurezza e protezione, mentre il conflitto prosegue con intensità crescente.
Ispezioniamo ogni hangar e ogni pallet. Ci sono donazioni che arrivano da tutto il mondo, Italia compresa. Ieri abbiamo percorso oltre 30.000 metri quadri stracolmi di cibo e materiale medico fermi. Oltre al cibo e ai medicinali bloccati dal 2 marzo, siamo rimasti ammutoliti davanti all’orrore di un intero capannone pieno di oggetti rigettati da più di un anno: tende e generatori, bombole di ossigeno e respiratori per operazioni, incubatori e frigoriferi per vaccini, torce con pannello solare, sedie a rotelle, tutto rigettato da Israele perché considerato “pericoloso”, o forse perché necessario per la sopravvivenza dei palestinesi. Abbiamo proseguito il cammino lungo un parcheggio di ambulanze ferme.
Mentre osserviamo le mappe tracciando ogni via umanitaria sbarrata, parliamo con il personale della Mezzaluna Rossa egiziana che lavora senza sosta, sperando che fra poche ore si possa tornare in campo, rimettendo in moto gli aiuti. Quelli che prima arrivavano per mare, aria e terra. Raccontano che, durante il primo e brevissimo cessate il fuoco, importanti strumenti di vero e proprio supporto medico sono arrivati anche dall’Italia: per esempio un ospedale da campo trasportato su nave. Dalla parte egiziana gli aiuti transitavano dai valichi di Rafah e di Karem Salem, fino al blocco israeliano che ha chiuso il primo dei due varchi.
Da allora, se gli operatori egiziani e della Lega Araba si tengono costantemente pronti a far passare ciò che serve nella parte palestinese, dall’altra parte le bombe non smettono di compromettere e impedire ogni passaggio sicuro.
Solo in questo istante stanno passando i primi camion di aiuti.
I camion di aiuti – se procedono – sono costretti a essere scannerizzati e controllati due volte, al primo checkpoint di Ixana che dista 50 km dal confine, per poi percorrerne altri 50 indietro, e al secondo di Karem Salem dove – per volontà di Israele – possono arrivare solo 300 camion al giorno. Un’immensa erosione di tempo e di risorse. La sosta e l’attesa degli aiuti sui camion costa ogni giorno 100 dollari, per 3000 camion. Il governo israeliano non pone limiti solo sui numeri, ma anche alle dimensioni dei pallet, al tipo di imballaggio e al contenuto: se un pallet è troppo alto torna tutto indietro, anche il cibo, e si perde ulteriore tempo.
Non si tratta solo di far entrare gli aiuti con i convogli, ma per esempio di far funzionare i due campi creati per 7000 persone l’uno, le cucine a cui quest’anno è stato impedito di fornire i pasti durante il Ramadan. Si tratta di accogliere i palestinesi feriti e i loro familiari, o di accompagnare con le ambulanze le persone in ospedale. Si tratta di dare assistenza a tutti i congiunti che non vengono autorizzati a varcare i confini con i loro cari feriti: immaginate – ci dicono – un bimbo gravemente ferito alla cui mamma o al cui papà viene negato il permesso di accompagnarlo; queste persone hanno bisogno del nostro supporto. Ma da molto tempo, ormai, la Mezzaluna Rossa non è autorizzata a ricevere nessun ferito.
Incontriamo i membri dello staff dell’Ocha (Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’Onu): dall’inizio della crisi, il 23 ottobre 2024, lavorano incessantemente per far sì che tutto il necessario arrivi dall’altra parte, ma ormai dal 2 marzo dai valichi non passa nulla. Significa che da due mesi e mezzo non entra cibo a Gaza e si sta raggiungendo un livello di carestia gravissimo. Mentre gli operatori sono pronti sul posto con 1500 camion e altri 9000 che potrebbero entrare da diversi corridoi, Israele ostacola anche l’utilizzo della via aerea, reso comunque impervio dalle condizioni meteorologiche instabili e dal territorio in rovina, in cui non esiste più alcuno spazio sicuro per far cadere il cibo.
Mai, nella storia dell’umanità regolata dal diritto internazionale, un Paese aveva negato l’invio degli aiuti in un altro attaccato per così tanto tempo e per una popolazione tanto densa, che ne dipende interamente. Israele ha fermato migliaia e migliaia di invii di acqua a e cibo e ha letteralmente bandito le Nazioni Unite da un luogo di guerra: un fatto senza precedenti. L’Unrwa – che conta ancora 12mila membri palestinesi presenti a Gaza e che nacque nel 1949 per garantire assistenza e protezione profughi palestinesi– è stata messa fuori gioco, sebbene fosse l’unica agenzia che poteva garantire il 60% del sostentamento, delle curie primarie, dell’educazione, dei servizi igienici. Una perdita che pesa enormemente anche sulle altre agenzie dell’Onu.
È l’ennesima scelta per piegare Gaza e compiere un genocidio. Israele agisce con impunità grazie alla complicità degli Stati Uniti e all’incapacità dell’Unione Europea di sanzionare e interrompere i rapporti commerciali. E di far cessare lo stigma e l’embargo economico di tanti Paesi membri nei confronti dell’Unrwa.
Ieri sera, nel deserto del Sinai, arriva un’agenzia: “Netanyahu annuncia la ripresa degli aiuti a Gaza. La decisione ha effetto immediato”. È davvero un segnale di speranza? Significa che la pressione internazionale, le piazze piene da Istanbul a Londra, dall’Algeria a New York, da Torino a Roma, da Milano a Madrid hanno dato una spallata utile?
La realtà è molto più ambigua e più amara di così: tutti gli operatori concordano nel dire che il vero obiettivo del Paese occupante, nell’annunciare la ripresa degli aiuti, è smorzare la pressione esterna e assumere il controllo degli aiuti stessi. E questo significa utilizzare le tecnologie biometriche di identificazione (riconoscimento facciale o vocale, impronte digitali) per portare a compimento il piano di annessione e pulizia etnica. Il disegno israeliano di far gestire gli aiuti umanitari dall’esercito e da compagnie private americane era già stato palesato tempo fa: un progetto spaventoso e vessatorio, costruito per spingere le famiglie – anziani, bambini, donne, feriti – a lasciare definitivamente Gaza e spostarsi a piedi per chilometri per concentrarsi attorno ai tre o quattro hub di distribuzione, unici punti in cui le porzioni saranno distribuite, solo personalmente e previa identificazione.
Una strategia diabolica di esilio forzato e controllo attraverso gli aiuti di cui le persone hanno disperatamente bisogno. Una strategia che lascia allibiti anche gli operatori delle Nazioni Unite, scettici sulla possibilità di consegnare cibo a 2 milioni di persone con così pochi hub, e a cui si rifiuteranno di partecipare, decisi a far valere il principio umanitario dell’offerta di aiuto a chiunque ne abbia bisogno e nel modo più agevole possibile, senza attuare misure di sicurezza e identificazione della popolazione palestinese.
Uno schema di annessione e deportazione, volto a militarizzare gli aiuti umanitari e a delegittimare le Nazioni Unite, che mette in crisi l’impalcatura stessa del sistema protezione umanitaria multilaterale: una volta compromesso senza conseguenze, saremo tutti a rischio. Un pericolosissimo precedente da cui non si potrà tornare indietro.
In queste ore, purtroppo, giunge la conferma dei nostri timori, con una seconda dichiarazione di Netanyahu: “Non dobbiamo arrivare a una situazione di carestia”, ma “abbiamo intenzione di prendere il controllo di tutta la Striscia di Gaza, è quello che faremo”. Netanyahu, insomma, ha accettato di allentare il criminale blocco umanitario a Gaza, facendo entrare solo una quantità minima di cibo per evitare una carestia che – parole sue – comprometterebbe l’operazione militare, così da poter continuare a sterminare i palestinesi con le bombe. Ha spiegato chiaramente che questa concessione minima era necessaria per non perdere il sostegno – degli Stati Uniti e dell’Occidente tutto – al suo folle piano di conquista dell’intera Striscia di Gaza. Poco dopo arrivano le parole di conferma del Ministro delle Finanze neonazista Smotrich: “L’Idf sta spostando la popolazione palestinese dalle zone di combattimento” verso il sud della Striscia “e da lì, con l’aiuto di Dio, si sposterà in Paesi terzi, secondo il piano del Presidente Trump”.
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La carestia dilaga già, effetto dello spietato assedio, il nome del dio di Smotrich è “deportazione” e, senza un immediato cessate il fuoco, non si potrà salvare Gaza. Facciamo appello all’Unione Europea affinché i suoi stessi frigoriferi per i vaccini, le ambulanze bloccate e tutto ciò che è fermo da mesi ai valichi possano finalmente entrare. Non c’è più tempo: Gaza sta morendo sotto i nostri occhi mentre i tank avanzano, insieme al diritto internazionale e umanitario. È il momento di un vero cessate il fuoco.
Fermiamo le bombe, fermiamo la fame, fermiamo il piano diabolico di annessione di Netanyahu. La seconda superpotenza al mondo, la società civile che vuole la pace, la pressione internazionale possono riaprire le porte dell’inferno. L’unica speranza che abbiamo è che l’Onu torni a Gaza e sottragga le redini degli aiuti a Israele. Facciamo ancora più rumore. Mercoledì, in Parlamento, l’Italia dovrà decidere da che parte stare, se da quella del diritto internazionale o da quella degli autori di un genocidio.
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