Perché l’espulsione dell’Imam di Torino per il suo dissenso contro il genocidio a Gaza non è un caso isolato
- Postato il 25 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo a Torino, è stato prelevato e trasferito in un Centro di permanenza per il rimpatrio. Il provvedimento arriva settimane dopo le sue parole pronunciate durante una manifestazione pro Palestina del 9 ottobre, quando aveva definito l’attacco del 7 ottobre 2023 come una reazione ad anni di occupazione. Una dichiarazione che rientra nel campo della libertà di espressione politica – piaccia o no – è bastata per trasformarlo nel bersaglio di un’operazione mediatica e istituzionale culminata nella revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo e in un ordine di espulsione.
Shahin vive in Italia da oltre vent’anni. È egiziano e, in quanto oppositore del regime di Al-Sisi, sarebbe in pericolo reale e immediato se rimandato in Egitto. Nonostante questo, e nonostante abbia presentato una nuova domanda di asilo tramite il modello C3 – che per legge sospende ogni espulsione fino alla decisione della Commissione – la magistratura ha comunque convalidato il rimpatrio, aggirando una procedura che normalmente tutela chi chiede protezione internazionale. Un atto punitivo insomma.
Come ricorda il movimento Torino per Gaza, Shahin paga una sola colpa: essersi esposto pubblicamente, e senza pause, denunciando il genocidio in corso a Gaza e sostenendo la causa palestinese. Una posizione politica e morale trasformata in motivo di espulsione. Un uomo musulmano che prende parola sulla Palestina è trattato come un problema di sicurezza, non come un soggetto avente diritto alla libertà di espressione, garantito a chiunque altro.
E questo caso non è affatto isolato. Negli ultimi due anni è emersa una tendenza sistematica: uomini arabi, musulmani e palestinesi vengono sorvegliati, puniti e criminalizzati in modo sproporzionato rispetto ai fatti contestati. Il trattamento riservato ad Ahmad Salem, 24 anni, ne è un esempio lampante. Arrivato in Italia per chiedere protezione internazionale, è finito nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rossano Calabro. Durante la procedura di asilo gli è stato sequestrato il telefono e parti di suoi interventi pubblici – slogan, appelli alla mobilitazione civile per la Palestina, contenuti politici – sono stati etichettati come “terrorismo”. Frammenti decontestualizzati sono bastati per trasformare l’espressione del dissenso palestinese in un reato. Il tutto mentre tre giovani palestinesi – Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh – sono accusati di “terrorismo” sulla base del volere di Israele, con Yaeesh ancora detenuto da oltre un anno. Anche qui emerge lo stesso schema: presunzione di colpevolezza, sovrastima del rischio, accettazione acritica delle narrative israeliane e criminalizzazione automatica del profilo palestinese.
A questo si aggiunge quanto accaduto a Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia. Fermato all’aeroporto di Linate, è stato denunciato per “istigazione alla violenza” e colpito da un foglio di via che gli vieta di entrare a Milano per un anno. Provvedimento già applicato in passato, sempre in correlazione alla sua attività pubblica in solidarietà al popolo palestinese. Hannoun definisce l’operazione “un atto di aggressione”: “Mi dispiace di questo atto di aggressione nei miei confronti, mentre il nostro governo è complice diretto del genocidio a Gaza, dove fornisce armi per sterminare i gazawi. (…) All’uscita dell’aeromobile gli agenti della polizia mi hanno identificato e mi hanno portato in ufficio a Linate per darmi due notifiche. La prima era l’allontanamento dalla città per un anno, l’altra una denuncia per istigazione alla violenza”.
Anche qui si ripete lo stesso schema: l’attivismo palestinese e musulmano viene decontestualizzato, punito e represso con l’espulsione fisica dal territorio, con l’isolamento; ogni parola è un potenziale reato, ogni presenza pubblica trattata come un problema di sicurezza nazionale. Non è un caso: è parte di una strategia che colpisce sempre gli stessi corpi, gli stessi accenti, le stesse identità.
Un’ulteriore conferma arriva dal caso dell’imam di Bologna Zulfiqar Khan, allontanato dall’Italia l’anno scorso attraverso un decreto immediato del Ministero dell’Interno basato su una selezione di sermoni, frasi e contenuti religiosi interpretati come indicatori di pericolosità. Un uomo residente in Italia da decenni, privato del permesso di soggiorno ed espulso senza garanzie adeguate e senza un vero processo. Anche qui, un dissenso o un linguaggio religioso che non piace è stato sufficiente per attivare la macchina dell’espulsione.
Mettendo insieme questi casi, emerge una dinamica chiara: quando il soggetto è un uomo musulmano o palestinese che denuncia il genocidio di Gaza o critica la politica occidentale in Medio Oriente, lo Stato interviene con misure eccezionali ed eccessive – fogli di via, espulsioni, revoche del permesso di soggiorno – accuse sproporzionate e criminalizzazione delle opinioni. È una strategia che colpisce sempre le stesse identità, incoraggiata da un clima politico che normalizza l’idea islamofobica del musulmano “pericoloso” e “radicale”.
Questo non è sicurezza: è razzializzazione del dissenso. È islamofobia istituzionale normalizzata. È un avvertimento politico a un’intera comunità: il diritto di parola non vale uguale per tutti. E chi parla contro un genocidio, soprattutto se coinvolto direttamente, rischia, in questo Paese, di essere trattato come se fosse lui il pericolo.
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