Sanremo è servito nei numeri, ma poi Brunori non si è omologato: ha saputo sfruttare il momento
- Postato il 25 agosto 2025
- Blog
- Di Il Fatto Quotidiano
- 2 Visualizzazioni
.png)
Recentemente sono stato all’ultimo concerto estivo di Dario Brunori. Si è tenuto a Montesilvano, la mia città, in una zona che alcuni anni prima aveva ospitato il Jova Beach Party, una spiaggia libera abbastanza grande, un posto storico per il turismo balneare “fai da te” delle famiglie.
Ho scritto molto di Brunori in questi mesi sui social, sia per la sua recente partecipazione a Sanremo sia più indietro per la sua posizione nei confronti dei grandi eventi live. A conti fatti, si può dire che il cantautore calabrese abbia vinto una difficilissima sfida con se stesso e sia il prototipo di come oggi possa configurarsi il percorso di un artista virtuoso, in un’Italia sempre più omologata musicalmente. Mi spiego meglio.
Brunori è andato a Sanremo nel 2025 ma era partito dall’underground puro, sin dagli anni Zero, e si era costruito una credibilità su scala nazionale grazie a un tipo di canzone non certo d’intrattenimento, che sa essere facilmente fruibile da tutti, ma che soprattutto ha la difficile capacità di saper essere profonda con un linguaggio che galleggia in superficie. Al Festival è arrivato dopo un Premio Siae Club Tenco e due Targhe Tenco, dopo aver scritto tanto anche per il cinema e aver vinto praticamente tutti i più importanti premi di canzone d’autore e un Nastro d’argento.
Qui c’è bisogno di una breve digressione storica. Sanremo per i cantautori, almeno dagli anni Novanta in poi, ha sempre rappresentato un’ottima vetrina. Lo è stata per Fabi nel suo inizio di carriera, poi per Silvestri, Consoli, Gazzè o Bersani, i migliori che abbiamo. Fino a una decina d’anni fa però era ancora vivo nel Paese un doppio canale mediatico per la musica: oltre al pop spinto che cerca in continuazione il gusto del pubblico, c’era diritto di cittadinanza anche per la canzone più riflessiva. Sanremo, anche se non era esattamente il tuo posto, riusciva a lanciarti in mare aperto o a mantenere il tuo vento in poppa.
Dunque, Fabi nel 1997 ci andava con Capelli e poi aveva la forza di imporsi in un circuito più adatto a lui; Bersani partecipava nel 2012 con Un pallone, così più gente sarebbe poi andata nei suoi dischi a scoprire meraviglie nascoste, con Samuele che continuava con soddisfazione la rotta che più gli si addiceva.
Tutto questo oggi non c’è più. In questi anni a Sanremo si sono visti tanti cantautori di livello che non hanno avuto gli stessi risultati, da Zibba tra le nuove proposte nel 2014 a Giovanni Truppi nel 2022. A quel punto, visto che la doppia possibilità non c’era più, o quegli artisti adeguavano il proprio linguaggio al mainstream – come in un certo senso hanno fatto Rkomi e i Coma_cose – o avrebbero continuato a navigare sottovento.
E torniamo a Brunori. Lui a Sanremo è riuscito a non essere innocuo, perché la canzone L’albero delle noci è certamente nelle corde di quel posto (i figli, la mamma, il cuore e l’amore, come dice scherzosamente, ma neanche tanto, lui sul palco) ma riguarda in modo sostanzioso anche la sua poetica, i temi della generazione che fa fatica ad accettare le proprie responsabilità e si crogiola nell’immaturità (La verità) o è invischiata nella provincia (La vigilia di Natale), oltre a quello della consapevolezza che i successi possono svanire in un lampo (Kurt Cobain). In genere sul palco di Sanremo si canta quel palco: Dario ha invece portato la sua voce. Il suo pubblico l’ha capito benissimo e l’aumento dei consensi ha mantenuto la solida modalità d’impianto che aveva fin lì caratterizzato la sua carriera.
Al concerto di Montesilvano c’erano diverse migliaia di persone, anche famiglie. Io seguo Brunori da sempre e vi posso garantire che Sanremo è servito nei numeri, ma lui ha saputo sfruttare il momento, mantenendo le peculiarità artistiche che gli addetti ai lavori della canzone d’autore gli avevano sempre riconosciuto. Dario è riuscito a realizzare quel grande evento con la solita autoironia sorniona, mettendo al centro la scrittura delle canzoni, i testi e tanta musica, una produzione oggi davvero potente con nove elementi sul palco, i musicisti storici da oltre quindici anni sempre più affiatati, Taketo Gohara ai suoni.
Quello di Brunori oggi è un concerto a cui non vai per poter dire di esserci stato. Si va per il gusto di ascoltare quei pezzi suonati in quel modo, perché le sue canzoni ci parlano, in quanto Dario ha creato un certo tipo di appartenenza: una persona colta, che non cede alla modalità aggressiva dell’oggi e sa veleggiare nel maremoto, con canzoni come L’uomo nero, Al di là dell’amore o Secondo me che però dicono dritto in faccia ciò che c’è da dire.
Dario ha saputo restare se stesso, perché omologarsi è davvero la cosa più disumana che un cantautore o una persona qualunque possano fare.
Photo credits: Michaela Dottore
L'articolo Sanremo è servito nei numeri, ma poi Brunori non si è omologato: ha saputo sfruttare il momento proviene da Il Fatto Quotidiano.