Tra interventisti e libero-scambisti: la globalizzazione è alla resa dei conti

  • Postato il 27 aprile 2025
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di Mario Tiberi*

I recenti avvenimenti mondiali hanno dato vita ad un ampio dibattito tra libero-scambisti e interventisti. I primi, convinti della capacità delle forze di mercato di soddisfare i fondamentali valori di efficienza ed equità, che caratterizzano il lavoro degli economisti. I secondi ritengono, invece, che sia necessaria una certa dose di intervento pubblico per attenuare gli effetti negativi provocati dai cosiddetti “fallimenti del mercato”.

Siamo forse a una resa dei conti, importante ma forse non definitiva, con l’egemonia neoliberista che ha contraddistinto gli ultimi anni del “secolo americano”; è dagli Stati Uniti che si è propagato il suggestivo marchio della globalizzazione che doveva rappresentare l’affermazione incontrastata dell’accoppiata capitalismo-liberaldemocrazia, suggellato dal crollo del modello alternativo autocrazia-economia di piano.

L’idea ispiratrice era la fiducia nell’indubbia capacità dinamica delle forze di mercato che, se lasciate il più possibile libere di operare, avrebbero creato un flusso di beni e servizi in misura tale da rendere automatico lo “sgocciolamento” della ricchezza anche verso i ceti meno abbienti. Questo spiega il forte impulso dato, anche attraverso l’ineliminabile intervento pubblico, a provvedimenti di progressiva liberalizzazione dei movimenti di merci, capitali reali e finanziari, ma non della manodopera come ben sappiamo.

Ci sono stati così decenni che hanno visto in effetti il formarsi di consistenti realtà di vincenti (paesi, imprese e individui) ma anche di inevitabili perdenti, secondo le normali caratteristiche dinamiche del capitalismo, che dovrebbero essere ricordate sempre da quelle forze politiche progressiste che invece oggi appaiono incredibilmente nostalgiche della globalizzazione.

Tra gli equilibri che i meccanismi di mercato non riescono ad assicurare ci sono quelli riguardanti i rapporti tra paesi. La nascita della Wto nel 1995 non è stata in grado di svolgere il ruolo importante che ci si attendeva rispetto all’esigenza di armonizzare gli scambi internazionali, il cui andamento è stato fortemente condizionato dalla frammentazione dei processi produttivi tra più paesi operato dalle multinazionali, forza dirompente di ogni incisivo tentativo di regolarne il comportamento mediante l’intervento di pubblici poteri.

Protagonista inattesa della fase globalizzante è stata però la Cina, che si è inserita con straordinari risultati sul mercato mondiale, divenendo un paese fortemente esportatore di merci e di capitali e tra i primi finanziatori del crescente debito pubblico degli Stati Uniti.

La presenza ancora insuperabile degli stati nazionali, che ben avvertiamo anche nella nostra Europa, si è fatta sentire per determinare la frammentazione del mercato mondiale con spinte sovraniste o regionaliste, che hanno reso sempre più caricaturale l’immagine di un mercato mondiale armonizzato dalla globalizzazione secondo l’ottimistica ma sempre più inadeguata narrazione neoliberista.

Così il paese-guida del sistema economico mondiale è costretto a rilanciare i dazi, che sono uno strumento cardine dell’interventismo economico, non estraneo all’esperienza storica di tanti paesi, compresi gli Stati Uniti che, verso la fine del secolo XIX, ne fecero un uso efficace, insieme alla Germania, per opporsi all’egemonia economica della Gran Bretagna imperialista.

Ed ecco che non si esita finalmente a rispolverare il termine di imperialismo, che può aiutarci a comprendere cosa sta succedendo nel mondo con Trump e la Russia di oggi, e magari della Cina di domani. A proposito della Germania non si può fare a meno di registrare il recupero della politicale fiscale interventista keynesiana, seppure avvelenata dalla destinazione al riarmo. Si pone, infatti, da loro come in Italia, il problema di risollevare la domanda interna. Si dovrebbe ottenere dal governo: l’impegno all’accelerazione massima dei fondi Pnrr; la sollecitazione al rinnovo dei contratti accompagnatati dalla defiscalizzazione degli aumenti per la loro durata; il ripensamento sull’introduzione del salario minimo; l’impegno ad operare per il rilancio o l’innovazione di organismi internazionali di coordinamento economico.

Tornando agli Stati Uniti, l’aspetto singolarmente contraddittorio tra neoliberismo e interventismo, messo in clamorosa evidenza, è la coesistenza nell’area del comando dei profeti più radicali della visione di un’economia mondiale aperta alla straordinaria attitudine espansiva delle loro imprese con questo ostentato ritrarsi del loro presidente dietro lo schermo dell’interventismo più tradizionale.

*Allievo di Caffè, professore di politica economica, ha insegnato in numerose università in Italia, Europa e Sud America. Si è occupato prevalentemente di teoria della distribuzione, stato sociale, imperialismo e internazionalizzazione.

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